Qualcuno ha mai riempito una poltrona, che è un sacco vuoto, di polistirolo? È un’esperienza. Il polistirolo non si muove affatto in modo lineare e nella direzione in cui vorresti. Si sa che la forza elettrostatica lo attira sempre altrove. Ma dove? Alle mani, ai bordi del suo sacchetto di plastica, e soprattutto all’aria. È attratto dall’aria, e vi si libra in modo apparentemente casuale. Migliaia di pallini che si cercano, ti prendono in giro volando verso l’alto. È uno spettacolo.
Non sono chiamati tanto dalla terra quanto dall’aria, eppure non sono insetti o uccelli, non hanno ali a chiarire quel moto. Il polistirolo si muove inspiegabilmente in ogni dove.
Si avverte la forza della calamita. Elettroni, carica più e carica meno. Mani e polistirolo funzionano, devono aver cariche opposte.
Vola. Si poggia a terra un attimo, ma non può stare. Riprende il cammino, ma non sa dove andare. Gira a vuoto, a caso forse, s’attacca a una parete verticale. Ma non è il suo posto, e deve cambiare. Volteggia nell’aria, e cede. Poi esce all’improvviso, da sotto il letto, dall’armadio, e neanche lui sapeva di esserci. Era chiuso lì per sbaglio, per dimenticanza, per negligenza, per attaccamento. Torna con un soffio di vento. E poi ne rincorre un altro. Nel moto c’è vita, tra pallini di polistirolo.
Fatti per volare in modo apparentemente casuale, attaccati a sogni verticali, spinti verso mani ignote da cui forzatamente si staccano, per riunirsi ad altri volanti e leggeri. Forze centripete e centrifughe li scuotono, li fanno danzare, li fanno veleggiare, li fanno sperare.
Di polistirolo e carne.