Quando avevo circa sei o sette anni volevo sistemare il mondo. Sì, esatto, dargli una sistemata! Un progetto interessante. Avevo chiesto a mia madre di prendere un blocco perché doveva scrivere la lista che le dettavo. La prima cosa a cui pensare erano le ingiustizie. Non ricordo quali, ma quelle mi facevano stare male, proprio un male fisico.
Chi non potrebbe raccontare di averne subita almeno una? Facile, eh?
Più tardi ho fatto in qualche modo politica per dare una forma o un senso a quello che consideravo giusto portare avanti e condividere. Bene, male, chi lo sa. Mi impegnavo molto. Poi l’ho fatto per la mia ditta. Bene, male, chi lo sa. Ho fatto tante cose, ho sfatto tante cose; più o meno le stesse. Ma alcuni valori importanti in cui credevo e credo non li ho mai disattesi.
E oggi, che strano, mi sono sentita lontana dal potermi fare portabandiera di una presunta “ingiustizia”, un evidente sopruso, come tante altre volte mi sarebbe accaduto, perché il mio punto di vista è molto cambiato da allora.
Si possono almeno mettere sul piatto i fatti. Ci sono possibili ritorsioni se si evidenzia un problema nel sistema? È cosa probabile.
Ma confidando nel genere umano si spera nel meglio, nello stuzzicare un’idea, un’intuizione, magari un’epifania! Perché no?
Allora facciamo che oggi c’è raccontare una storia. Una storia di leoni.
Savana. C’era un leone molto vecchio, il re, di nome Zora, che aveva trasmesso il suo sapere ai piccoli leoni, a tutto il parentame. Da tradizione, di padre in figlio. Cacciare, inseguire le leonesse, acchiappare le gazzelle, ammirare i tramonti, scappare dall’uomo. Lui non mollava lo scettro. Tutti i leoni ormai cresciuti sarebbero stati nell’età di diventare suoi successori. Alcuni di loro se ne erano andati, cercando nuovi territori; altri aspettavano che lui morisse perché quella era la savana più prestigiosa e ricca di selvaggina di tutta l’Africa. Questa è la natura.
Zora non solo non moriva, ma continuava a gestire il potere.
Sembrava non capire che era arrivato il momento in cui avrebbe dovuto ritirarsi ad ammirare il tramonto e l’alba, deponendo lo scettro. La savana, per quanto immensa, era sempre più desertica, c’era davvero bisogno della linfa fresca e anche un po’ scriteriata dei giovani leoni che litigavano adesso tra loro per lo stesso spazio, per la stessa leonessa. C’era un disperato bisogno di far posto alle nuove leve perché il sistema era incancrenito. Zora non sentiva i lamenti, fiero della sua incredibile lunga esperienza, forte delle pallottole scansate e di quelle ormai inglobate nel dorso. Era sicuro che nessuno fosse alla sua altezza, e poi: cosa altro avrebbe mai fatto se non essere l’unico maestro e padrone? Sarebbe andato forse in depressione. Avrebbe potuto ritirarsi, e studiare le stelle, il sogno di quando era cucciolo, lasciando che i giovani si azzuffassero, sbagliassero, maturassero e si riproducessero. Sarebbe dovuto esser fiero dei felini cresciuti. Ma aveva paura di essere dimenticato, della vecchiaia, si sarebbe forse annoiato? Poteva essere, lui, un leone disoccupato?! Sì, lo era, ma non ci poteva stare, per cui era attivo più e quanto prima facendo le stesse cose del passato. Ma possibile che davvero non capisse che era il caso di mollare? La savana diventava sempre più desertica e disastrata, e Zora non vedeva che stava agendo contro l’interesse della sua terra, impedendo alla nuova generazione di assumere i ruoli a lei destinati. Ci voleva un grande coraggio per farsi da parte. Si guardò nel fiume e pensò che era ancora molto bello. “In fondo, un’altra stagione ancora, che mai potrà cambiare?”. Infatti. Non cambia niente.