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Musei? Passione a doppio taglio

marzo 20, 2016
by Guia
planando piano
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La mia vita si è permeata di arte e musei, nel bene e anche nel male. Strane le passioni a doppio taglio. Per questo adesso mi risulta complesso parlarne con la leggerezza che desidererei. Vedremo cosa ne esce.
Durante il mio primo viaggio nella City rimasi mezza giornata a bocca aperta al Museum of Modern Art. Avevo trovato pane per i miei denti. Ero rapita davanti alla varietà incredibile di artisti rivoluzionari del secolo passato, opere cadenzate tra pieni e vuoti, ritmo e luce. Ricordo che c’era una mostra sul visionario Dalì che a Figueres, vicino Barcelona, aveva conquistato me bambina con il suo mondo da fumetto surreale.
Proprio il MoMA è stato uno di quei posti varcata la cui soglia avevo sentito d’aver raggiunto il sogno. Ero in un museo perfettamente climatizzato, in cui ogni cosa aveva il proprio spazio e il proprio senso; logica, funzionalità e organizzazione parevano regnare, tutto ciò che mi aveva nutrito fino ad allora.
Guardando dall’alto la strada sottostante mi fermai a osservare il vetro della portafinestra chiusa, adeguatamente oscurato per filtrare i raggi che fanno invecchiare la pelle e tutto quanto è organico. Mi vennero in mente gli Uffizi dove, l’ultima volta che ci ero stata, le finestre erano aperte. Certo, cambiamo l’aria che ‘sti turisti la respirano tutta, ma era un vero controsenso, uno schiaffo alla conservazione dell’arte.
A New York sembrava tutto riuscito. Mi prese una lieve vertigine sia per l’impressione di poter volare nel vuoto di fronte a quella finestra senza balaustra – cosa impossibile essendo chiusa e dal vetro altamente infrangibile – , sia per il fatto che funzionassero così tante cose che rendeva quell’esperienza troppo per la mia mente, una bellezza insostenibile. Mi girava la testa.
Per gli amanti dell’architettura moderna è impagabile una gita semplicemente con il naso all’insù in mezzo agli affascinanti grattacieli Art Decò, oppure una sulla High line restaurata a scoprire gli edifici industriali quasi a portata di tocco, o una al Guggenheim Museum. Qui l’escursione è d’obbligo perché, se pur non si è appassionati d’arte moderna che di norma vi è esposta, si può passeggiare in una bellissima struttura unica, ariosa, spaziale. Sono sempre rimasta incantata davanti a ciò che non ho conosciuto fin da bambina, che si trattasse degli americanissimi grattacieli o delle chiese barocche spagnole, meraviglie mai viste in the Florence surroundings.
Se si è interessati non solo alle opere ma anche ai metodi espositivi, di illuminazione, agli escamotage per esporre al meglio l’arte, i citati musei o alcune sezioni del Metropolitan Museum of Art non si possono perdere.
Abituata all’Italia, con i suoi dolci sforzi di esibire meraviglie spendendo quasi sempre tre fiorini usando pure il baratto per risparmiare, i cui straripanti depositi museali talvolta farebbero rabbrividire il più truce Freddy Krueger, quando ho messo piede in alcuni musei statunitensi sono rinata.
Nel mondo della conservazione italiana ho potuto vedere talvolta imbarazzanti allestimenti di oggetti di meraviglia e pregio incredibili, luci espositive impossibili, teche impensabili; e ancora teste di mummie egizie poggiate sulla terra battuta nei magazzini in cui sarebbero dovute essere conservate, e guano di piccioni a pioggia a ricoprire opere d’arte in soffitte destinate quasi per caso a stoccaggio d’arte – ambienti dello stato italiano, non del mio vicino di casa. Ho visto reperti fantastici ammassati in luoghi malsani, posti da andarci con lo scafandro, privi di qualsiasi primaria norma manutentiva perché mancavano gli spazi, i soldi, la determinazione. Quello che non manca mai è l’accampare scuse.
A New York le risorse, come la volontà, sembrano abbondare. Oltreoceano ho visto cassetti perfetti, rigorosi, con reperti d’ogni sorta, belli e parecchio meno belli, tutti schedati e riposti per resistere in sempiterna saecula, tutti stoccati con la stessa ascetica norma perché è la filosofia a monte a essere diversa dalla nostra, non soltanto la qualità e la tipologia dei reperti conservati. È una mentalità assimilabile ad un universo che ignoriamo e a cui, in certi contesti, aspiriamo; è un modo d’intendere il patrimonio culturale e il valore della storia che si creano documentando sia il proprio percorso che quello altrui.






Non ho mai trovato tanto apprezzamento per il nostro paese come a New York, né mi ero mai sentita così orgogliosa di essere italiana: è stato bellissimo. Solo una volta mi è stato fatto un, peraltro giusto, ridicolizzante cenno inerente la politica e la corruzione; il resto dei messaggi in risposta a “sono di Firenze” è stato un sonoro reiterarsi di sdilinquirsi per l’arte, per il clima, per il cibo, per il mare, per le colline. E io sorridevo, e ascoltavo. Mi beavo dei loro sguardi persi, e mi stupivo di quanto fossero ignari. Beata ignoranza. Bello vivere un po’ nel riflesso del loro pensiero su di noi.
In buona sostanza se l’America ha du’ cose messe in croce le sa vendere, ci investe, ne fa in qualche modo un business. Le conserva con religioso scrupolo. Se possiede arte europea poi lo ritiene un lusso, un incanto, un dono.
A testimonianza dell’attitudine di valorizzare le proprie glorie, un museo delizioso che correda gli importanti Kaufman Studios cinematografici newyorchesi, the Museum of Moving Image in Astoria ripercorre le tappe della storia del cinema. Era dietro casa mia. Calchi di attori, flipper, vecchie macchine da prese, foto, locandine, qualche costume, tutta roba che non arriva a più di 150 anni fa; e poi sale cinematografiche con una programmazione, tanta tecnologia. Bello, arioso, divertente.
Noi abbiamo un mondo d’arte millenario su cui non si investe niente. Molti che lavorano nei musei fanno salti mortali carpiati per trovare risorse, per tenere una persona con un contratto improbabile, per garantire l’apertura della propria istituzione, ma dato che il paese è privo di quella testa che dovrebbe sovrintendere non esiste un adeguato marketing, non c’è investimento in cultura, non c’è programmazione né conservazione preventiva. Non c’è proprio, zero: voce-non-pervenuta.
Noi restauriamo oggetti che si riconsegnano in chiese senza copertura nel campanile, o in luoghi quasi sempre privi di climatizzazione, condizione sine qua non per la sopravvivenza di quelle opere. Gare d’appalto vinte, e a seguire lavori che durano un anno senza alcuna possibilità d’avere pagamenti ad avanzamento lavori. Perché? Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi… già. Ne ho viste davvero tante perché ci ho lavorato.
Mi sono commossa esplorando alcuni depositi all’estero, non soltanto a New York in quelli del Natural History Museum e del Cooper-Hewitt Museum, ma anche a Boston e a Philapelphia nei rispettivi Fine Arts Museum, o nel National Museum of the American Indian fuori Washington.
Quest’ultimo, in origine dirimpettaio dei miei amici dell’Hispanic Society of America ad Harlem nei pressi di Washington Heights, è stato trasferito una decina di anni fa nei sobborghi della Casa Bianca per necessità di ulteriori spazi. Buffo. La concezione del museo è talmente diversa da quella che possiamo avere noi che non credo la potremo mai davvero comprendere. In Italia abbiamo adibito oramai da tempi immemori palazzi storici a contenitori di bellezza, divenuti tutt’uno con il contenuto, integrati, inscindibili: gli Uffizi, Palazzo Pitti, il Bargello, l’Accademia, per citarne alcuni a Firenze, e ancora reggie, chiese, parchi secolari distribuiti a pioggia per lo stivale. Certo, non è che lo spostamento di un museo americano con tutto il suo bagaglio storico coeso e oramai radicato con il determinato luogo in cui si trova sia una cosetta da farsi come cambiare parcheggio alla macchina, ma si tratta della possibilità in se stessa a fare la differenza. La mentalità statunitense è in movimento, in fieri, pronta a sterzare se necessario; come si percepisce l’eventualità, pur difficile, di cambiare lavoro, ecco che ogni cosa si può fare, sovvertire, migliorare. Si può. Questa è ancora la parola chiave. E non che gli Stati Uniti o NYC siano la panacea e possano dirsi il risolutore di ogni problema perché non intendo questo, ma la speranza che alcune cose si possano risolvere esiste, ed è concreta. La puoi toccare.
E quindi al National Museum of the American Indian sono conservati suggestivi totem indiani alti metri, canoe, cestini, borse, manufatti appartenenti a culture pressoché estinte. Una volta che i reperti hanno rivendicato l’urgenza di un nuovo alloggio, i capi della faccenda hanno preso baracca e burattini, 220 milioni di dollari, e si sono spostati con lo staff dalla sede newyorchese non di qualche blocks, ma in un’altra città.
L’Hispanic Society è invece rimasta dov’era originariamente, e pure con pochi fondi a contraddire tutte le belle storie finora da me sparate sulla volontà americana e sui denari in caduta libera per i musei. Ribadisco infatti il concetto sopra enunciato: non tutto va come nelle favole solo perché targato U.S.A. ma ciò che si respira nell’aria è continuamente la speranza, sempre presente, perché spesso accadono “cose”. Concorsi. Donazioni. Crescita professionale. Cambi di rotta.
La società ispanica, se pur tra i meno noti musei della Grande Mela, secondo me una gita la vale, offrendo uno squarcio su una collezione dal sapore e dall’ambientazione europea molto diversa dalle altre esposizioni in città. Il nucleo principale, una suggestiva e preziosa quadreria, è esposto in un affascinante sorta di grande patio, nel quale mi aspettavo da un momento all’altro di veder comparire un gitano con l’armonica, e poi una ballerina di flamenco che avrebbe iniziato a ballare facendo tintinnare le nacchere.
Qui mi sono sentita a casa, non so se perché mi hanno permesso di visitare gli anfratti invisibili ai non addetti ai lavori come le sale oggi chiuse per mancanza di risorse, o i lunghi corridoi di servizio, o perché con alcuni di loro ho fatto amicizia e si parlava in italiano o in un inglese che somigliava più allo spagnolo. Vero è che analogo ceppo culturale è un grande collante. Caspita, se lo è.
Ho capito cose banali stando a New York.
É facile fare una mostra con donazioni da milioni di dollari. Quando ascoltavo le cifre sul budget del Metropolitan Museum of Art mi venne il nodo alla gola realizzando che con una briciola di quelle somme si sarebbe portato avanti non una mostra bensì un intero museo italiano, con tanto di stipendio dello staff plus molte esposizioni con pezzi eccezionali. E allora ho compreso come la cura del patrimonio che i curatori americani gestiscono sia profondamente diversa da quella italiana, come l’approccio all’arte e la mentalità. Ho rivalutato il tanto che fanno gli addetti museali nella nostra penisola malandata con le scarsissime risorse destinate alla cultura. Ma quello che si realizza in Italia rimane sempre frutto di uno sforzo titanico contro le istituzioni non paganti, contro la burocrazia ostacolante, contro l’ottusità e il cattivo costume di considerare chi si occupa d’arte uno che svolge un passatempo, sostanzialmente votato al sacrificio. Ma la domanda è: a che pro questo immenso sacrificio?
Al Metropolitan Museum è stata molto chiara la percezione di quanto lo scarto tra i due mondi dell’arte, toccato e vissuto, sarebbe stato per me insostenibile una volta riapprodata in Italia.
Lavorare per un museo, e in cambio ricevere un compenso. Logico, no? Lì lavoravo, ed ero stipendiata. Non faceva une piega. E diversamente pare non abbia più senso.
Abbandonando la polemica a cui ho dato abbastanza sfogo, torniamo a qualche notizia su cosa c’è d’interessante da vedere nei musei.
Per il Met occorre molto tempo. Ci sono sezioni permanenti per tutti i gusti, diverse per metodi espositivi, dipendendo sia dalle scelte dei vari curatori sia da chi elargisce generosi contributi. Si possono sempre apprezzare mostre temporanee a rotazione che durano circa quattro mesi. Questo enciclopedico museo è una sorta di contenitore sotto al cui tetto convivono altrettanti variegati generi, produzioni ed ere, come accade al Louvre o al British Museum: arte egizia, islamica, oceanica, strumenti musicali di tutte le provenienze, antico Oriente, dipinti e statuaria, tutto il rinascimento europeo. E ancora suggestive ricostruzioni di interi ambienti francesi settecenteschi e camere veneziane, comprati pezzo-originale per pezzo-originale nelle loro sedi in tempi di abbandono o povertà da lungimiranti collezionisti americani. In fondo i Cloisters, succursale medioevale del Met, non è un assemblaggio stra-ben riuscito di parti di monasteri francesi e spagnoli costruito nel 1938? Gita in Upper Manhattan a visitare questa surreale costruzione, con tanto di splendida collezione e giardini, altamente raccomandabile.
Nel museum mile sulla quinta strada oltre al Met si trovano il luminoso e relativamente piccolo Museum of the City, un’interessante commistione di opere legate alla città e alla sua storia; come perdersi l’elegante Neue Galerie? L’ho vista solo in parte perché era in corso d’allestimento ma i Klimt che mi sono gustata nella sala principale ben valevano quella sosta; il già citato meraviglioso Solomon Guggenheim Museum cui fanno capo molteplici collezioni d’arte moderna; il Cooper-Hewitt Museum, punto di riferimento museale sul design.
E poi c’è la meravigliosa Frick Collection, a due passi dal Met, casa museo dalla quadreria eccezionale. Una visita indimenticabile, un vero covo di splendore.
Nel mio più recente viaggio a New York ho scoperto il Rubin Museum nei pressi di Chelsea, una sorta di depositario-testimone altamente hi-tech della cultura asiatica, in cui si respira un’aria mistica e introspettiva che mi si è appiccicata addosso. Sono cresciuta con alcune di quelle immagini attorno, per cui mi sono familiari come per alcuni un tempo poteva essere il crocifisso sopra il letto. A casa, dunque ero ancora a casa. Sono rimasta nella sala tibetana a meditare alla luce delle candele nella penombra con il sottofondo della registrazione di voci profonde che intonavano l’Aum. Quello è un posto che suggerisce altro, è una pausa per riflettere e perdersi tra fotografie di luoghi lontani, spazi aperti, immergendosi nei video delle cerimonie, e poi sì, certo, ammirare le collezioni di maschere e oggetti usati per rituali, ma se si desidera qui è possibile anche darsi del tempo per pensare dentro ad un colorato mandala.
E infine piccole perle create da privati, come il CIMA. Ho scoperto questo luogo appena inaugurato in seguito al suggerimento di un’amica un paio di anni fa.
In un solare loft a Soho una collezionista italiana ha deciso di stabilire una fondazione che promuove l’arte moderna italiana, rendendo visibile al pubblico l’immensa collezione paterna di artisti futuristi come Morandi, Medardo Rosso, Depero. Quest’iniziativa mi parve subito irreale. Sarebbe stato possibile realizzarla in Italia? Perché la Mattioli ha scelto New York e non Roma, per esempio? Forse per evitare una tassazione eccessiva, per gli impicci burocratici, oppure per miopia? Che dire? Sinceramente un po’ la capisco.
Anche il Center of Italian Modern Art ha trovato il suo spazio in una città in cui investire nell’arte ha preso un senso concreto. L’ennesima fuga.
Quando ci sveglieremo decidendo che è terminato il tempo del bearsi dei fasti del passato, allora sapremo essere proattivi, pianificatori e lungimiranti, riconoscendo il valore della nostra cultura e storia, e allora avremo il mondo, quel mondo che è davvero a portata di mano.

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Dopo molti anni di restauro di tessuti tra Firenze e Prato con la mia ditta mi e' giunta l'opportunità di chiedere un time-out dalla libera professione in Italia (!!!), per riprendere la ricerca, che amo molto, a New York. Lanciata con la fionda per un anno allo sbaraglio! E mo' si fanno i giochi
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