Il mondo dei diners ha per me un fascino del tutto speciale, certo per il fatto che ne sono stata catturata scorgendolo nelle sequenze di innumerevoli film e telefilm, da Grease a Happy days, o più tardi Coffee and Cigarettes.
Il concetto del diner manca, e presumo sempre mancherà dall’Italia. Penso non ci sarebbe alcuna necessità di importarlo. Nonostante adesso io sia a New York e questo non rientri tra i luoghi che frequento abitualmente, continuo ad esserne incredibilmente attratta. Mi prometto di testarlo con assiduità.
Sono molteplici fattori combinati insieme a conferirgli un particolare magnetismo: dall’arredo – i ben noti lunghi banconi di acciaio -, alla cucina servita – le colazioni oversize all’americana, gli hamburger nelle varianti con un solo tipo o molti tipi di formaggi, le patatine fritte – fino al personale specifico, le cameriere che, con grembiule e cappellino coordinato passano a prendere le ordinazioni e dispensano, talvolta con generosità, un liquido denominato caffè che non ne possiede né l’odore né il sapore. Quella è in realtà un’altra bevanda, che a me tutto sommato piace e che tutti conosciamo chiamata American coffee (per inciso, non ho mai visto cameriere così abbigliate, trovando anzi spesso uomini a servire… praticamente un immaginario di CocaColiana memoria distrutto).
Comunque, esistono altri luoghi più peculiari degli Stati Uniti? Non saprei. Nella mia nuvola, that’s America. Forse i drive-in possono dirsi alla pari?
I diners finora provati erano pieni di gente, dunque allegri, aperti fino a tardi; di contro, dalla strada ne ho scorti altri semi-deserti, illuminati da gelide luci al neon, e quindi desolati al limite dell’inquietante. Ma risultavano sempre affascinanti e, in un certo senso, densi. La certezza, per quanto illusoria, che sarebbero rimasti aperti nonostante il poco afflusso di avventori, come in Italia accadeva a quegli enormi bar deputati principalmente all’aggregazione di uomini, giocatori di carte, di biliardo, fumatori, tifosi, lettori della Gazzetta dello Sport. Dovevano detenere almeno tre delle suddette caratteristiche per far parte della brigata.
Come facevano a campare i titolari di quei locali facendo venti, ma anche fossero stati cento caffè al giorno? Ignoro il loro piano economico, come gli incassi che si procuravano, ma dato che quei bar sono rimasti aperti per decenni sopravvivendo immutati, le cose, in qualche modo, dovevano girare. Adesso tutti i locali si frazionano, si riempiono di specchi, poi di luci, di paste piccole, di aperitivi. Aprono e chiudono attività alla stessa abbagliante velocità.
Ecco, un verace diner di periferia, un po’ vuoto di gente ma pur sempre attivo, mi piace, e mi incuriosisce l’andamento del suo lavoro: l’associo ai locali che non si trovano più nella mia piccola e molto turistica Firenze, quelli sparuti rimasti nei borghi e nei paesi di provincia.
Nelle pietanze offerte di un diner si rintraccia un pezzettino della storia e della cultura americana – un po’ come accadeva con la pastarella gigante del giorno prima al Bar dello Sport –, che si ritrova sia nella struttura del servizio offerto sia nella modalità in cui si realizza. È altro da noi, si sa, e da mille tradizioni ben più lunghe o sofisticate. Ma non conta. Io m’incanto davanti a un caffè americano e ad un pancake spugnoso alto 1 centimetro per il portato, se pur recente, che quel piatto rappresenta.
Come dimenticare telefilm che hanno segnato la mia infanzia che si svolgevano in un diner? Sono state prima Alice e poi Flo ad aprirmi le porte di questi luoghi nei primi anni ‘80. La cameriera protagonista lavorava al Mel’s Diner con tale dispotico boss, Mel appunto, e aveva un paio di colleghe tutte di rosa vestite. Risate registrate, molta leggerezza. A ricordarlo adesso aggiungerei anche una punta di squallore, ma a quel tempo mi sembravano vicende curiose e divertenti, provando solo la sensazione di tuffarmi negli States semplicemente accendendo l’apparecchio. Mi spostavo in un’altra dimensione a millemila chilometri mentali di distanza, in un posto in cui gli avventori tornavano sempre, proprio come al bar sotto casa, e il ritorno di per sé porta conforto.
Ci sono i diner stile anni ’50 che, per quanto ben diversi rimandano alle atmosfere dipinte da Hopper; ci possono essere colonne rettangolari color acciaio, pavimenti a quadrati bicromi, alti sgabelli rotondi presso il banco, lunghe sedute rivestite in pelle inframezzate da tavoli dagli angoli stondati in multistrato alto 5. In alcuni locali ho potuto vedere pure la polvere originale di quegli anni, garanzia di successo per l’ottenimento dello specifico sapore d’altri tempi.
Poi ci sono i diner attualizzati, la cui modernità può esprimersi, ad esempio, in pannelli luminescenti con i menù alle spalle dei commessi. È solo uno step prima di Mc Donald’s. Vicino a casa mia c’è un locale così, un posto di medie dimensioni sull’angolo, in cui fanno anche la pizza, che ho visto frequentato da gruppi di anziani, da famiglie che lì trascorrono la cena del sabato, da bambini a festeggiare il compleanno.
Questo è un diner di quartiere, in Astoria, Queens.
Sono certa che i clienti siano abituali; non ci si muove per andare in un posto simile ma lo si frequenta se si è di zona. E dato che a New York manca il concetto della “piazza”, questo locale funziona bene come luogo di aggregazione. Nessuno ti manda via dopo che hai fatto la tua consumazione per avere il posto libero. Si può stare indefinitamente, fino a chiusura. E si torna, e si conosce il titolare, e pure il commesso. Niente di troppo diverso dal Bar Sport.
Socialità espressa tra un morso ad un hamburger, due patate fritte e un sorso di un lunghissimo caffè americano.