Le lasciò una lettera in camera con la sua grafia chiara. C’era scritto che partiva per seguire un lavoro a Milano e che sarebbe venuto presto a trovarla. Le voleva bene, sempre. Lei tenne quella lettera per anni, quando conservava ancora tutto, ogni cosa, ogni dettaglio, perché tutti i ricordi dovevano starle cuciti addosso il più possibile. Capì che se n’era andato. Pianse. E cambiò tutta la sua vita. In bene, in male? Cambiò. Giugno 1986.
Mentre annaspo nell’avvilimento totale di non riuscire a trovare più il mio diploma per partecipare ad un bando del Ministero che scade domani, mi chiama una signora. Ottengo intanto per pura e inaspettata fortuna da parte di un’impiegata sollecita copia del diploma. Un miracolo praticamente. Lo recupera e me lo invia in mezz’ora. Benedetta sconosciuta!
Tra antibiotici, sinusite e il caos che ormai regna il mio universo perché governo solo e soltanto le emergenze non avendo più la facoltà di costruire ma solo quella di tappare i buchi o correre ai ripari, prendo fiato per capire cosa voglia la signora al telefono. Parla di filato per quaranta minuti. Mi mette in guardia, mi dà consigli. Prende le distanze o vuole avvicinarsi? Io prendo tempo.
Cammino nel sole perché oggi c’è il sole, e sorrido mentre l’ascolto perché non so più che fare. Non mi acchiappi.
E poi una storia, una di quelle perle che avrebbe potuto raccontarmi solo lui.
Quel giorno del viaggio a Milano era forse invece il giorno di Lucca. Un sabato, rievoca lei. Lui era tornato dai suoi genitori. Magari per una giornata? Posso solo immaginare il carico d’angoscia e sconfitta con cui sarà giunto a destinazione, portando la notizia della sua separazione. Si presentò con i panni da lavare. A questa richiesta suo padre esordì con: “Lei [riferito a sua moglie], la serva la fa solo a me. Ti do i soldi per la lavanderia se ne hai bisogno, ma qui i tuoi vestiti non portarli”. La donna si trovò d’accordo; e approvando l’accaduto, lo raccontò alla vicina, che adesso, dopo quasi trent’anni, ripercorre con sommo sgomento un episodio che non ha potuto digerire e neanche vagamente sostenere.
Ripenso al mio di padre, quello con i panni sporchi. Ora è tutto molto leggero. Non c’è più nessuno. La signora non stava nella pelle per svelarmi che solo allora comprese che quei due, i miei nonni, erano uguali, anafettivi allo stesso modo.
Per l’appunto poco tempo fa avevo chiesto a mia zia, l’altra loro figlia: “Ma tu ti sentivi amata?” Non riuscì a dirmi di sì, ma: “Erano fatti così, lo dimostravano a modo loro”.
No, peccato. Hanno fatto un casino. Non si dimostra in questo modo, nè in tante altre forme che piano piano mi torneranno alla mente. Non si compra l’amore. Ci hanno provato, ma è andata piuttosto male.
Queste trame si dipanano intorno a me, e le provo a sciogliere lentamente; non ho più un attimo per scrivere perché cerco di rimediare ai problemi, poi galleggiare. E soprattutto lavorare.
Oggi mentre cercavo il mio diploma ho trovato invece quello di babbo… Ironico no? Ecco. Devo riordinare. Ho fatto in due anni tre traslochi, di cui due intercontinentali per cui un po’ di pezzi si sono persi, soprattutto della mia testa. La roba è ancora sparsa in due appartamenti e una cantina. Ora c’è un’altra casa da indagare, che vomiterà molte cose. Non voglio essere frettolosa. Deve essere fatto con un senso. Settanta anni di vita di quattro persone.
Stiamo nel limbo, quell’interregno irreale, nell’attesa. Anzi, stiamo a lavare via le macchie – chè di colpe non ce n’è – nella lavanderia del limbo, quel luogo da cui forse posso ripartire. Per la verità è uno dei luoghi da cui posso ripartire, ma di sicuro di un’importanza primaria. Anche Jack London, mio amato autore, lavorò in una lavanderia. E allora laverò via tutta questa melma che mi abbraccia. Non so come ma voglio lasciarli andare via tutti, liberi, non più legati al disastro che è stato. Dimenticare non serve, non basta.
Va almeno rivisto, e riconsiderato. Eccomi, Lucca sono pronta.
Arrivo presto, appena inviato il diploma giusto.