Sono monotona come una nenia, non c’è nessun racconto, nessuna storia, nessuna nuova scoperta. Non c’è niente, se non il puro piacere, o la speranza, di sentire che forse non sono impazzita. Forse.
Bisogna stare attenti a quel che si scrive, e a quel che si pensa. Allo stesso modo bisogna star attenti a quel che si sogna da svegli perché tutte queste cose potrebbero verificarsi, o meglio, materializzarsi. Per cui: attenzione. Quel che si sogna di notte invece non si controlla… storie di ordinaria amministrazione.
Non c’è alternativa, m’hanno detto. Non c’è scorciatoia. Si deve “semplicemente” fare attenzione.
Talvolta non ci sono neanche più sogni, e allora è un vero casino.
A giorni alterni, fiducia e disperazione fanno la loro fausta comparsa.
Il giorno della fiducia è molto bello; il giorno della disperazione è senza parole.
Il giorno della fiducia è oggi perché posso scrivere, e me ne fotto allegramente se ho tre sparuti lettori.
Oggi è quel giorno che a sera posso aprire la scatola rossa, quella delle foto e delle cartoline di Giovanni, e leggere una denuncia fatta da lui alla polizia nel 1991 contro ignoti ladri, e semplicemente commuovermi con grande affetto. Quattro furti in quattro mesi, leggo. Quella volta gli rubarono la giacca da moto, e posso solo immaginare quanto si sarà incazzato, povero babbo… avrà detto: ora basta, la giacca è troppo, si fa una bella denuncia. Io non ricordo, credo di non aver saputo nulla, eppure andavo a dormire da lui almeno un giorno alla settimana. Lui non chiudeva mai nemmeno gli scuri delle finestre…
Non c’è scampo, temo ci si debba stare con il dolore. Non si può scacciarlo prima del tempo. E quale tempo poi? Qual è il momento per cui il dolore si possa decretare FINITO? Bella domanda.
Si può forse contenere? O si può “spostare” altrove? Già, perché poi torni ancora e ancora a sprazzi glaciali nel futuro quando meno me l’aspetto? Eh no. E se i dolori sono tanti, troppi? Mi lascio attraversare da loro e non invadere, vorrei scorressero come un fiume, lavando via ciò che deve essere.
Quando è il giorno della fiducia posso pensare con conforto al suo viso sereno sul letto, quando lui non era più lì, e quel volto comunicava solo beatitudine. Posso credere che fosse il suo momento, e che tutti i miei guai troveranno una soluzione (anzi, varie soluzioni), che ho la forza di fare una cosa, ed anche, perfino un’altra! Due cose, sticazzi aggiungo.
Sogno continuamente mio padre.
L’altra notte gli dicevo che se non avesse fumato quella sigaretta che si stava rollando avremmo potuto evitare la sua morte. Però, aggiungevo piangendo, voglio fumare un’ultima sigaretta con te. E poi smetterò. Anzi, adesso non parliamo più in sogno: comunichiamo telepaticamente.
M’avrebbero arso sul rogo in un altro tempo per molto meno.
Riprendi le fila del passato, ricuci i giorni che non hai voluto vedere, e ora l’immagine si può ricomporre come un puzzle a cui mancavano dei pezzi che erano stati nascosti. Da chi?
In sogno arrivano un misto di vissuto e invenzione, idee, fatti che accadono il giorno seguente o due mesi dopo, è il caos, ed io non posso far altro che scrivere perché non m’è rimasto che questo: appuntare quei sogni “veri”, che decifro poi, lasciandoli sedimentare finché un giorno per caso li rileggo. Rimango di stucco. Le cose accadono.
A che serve, m’hanno chiesto? Non serve se non a farmi sentire che il presente è nelle mie mani, ed io sono nelle sue – è altrettanto vero – ma ho pur sempre un piccolissimo potere, quello di non dimenticarmi che ho ancora la possibilità di focalizzare il fine.
Se lo dimentico non c’è nessuna storia.
Grazie, giorno della fiducia.
E grazie cardellino ad avermi scelto per quindici emozionanti minuti.