Cazzo, avevo appena scritto un pensiero su un “apparente epilogo”, e dopo due giorni mi perdo il babbo. Si, lo vorrei dire a tutti, e l’ho anche fatto per la strada. Mi sono trovata a camminare piangendo per la strada ripetendo, gemendo diciamo “il mi’ babbino”, sentendomi improvvisamente Pinocchio. Non l’ho mai chiamato così, lui è il babbone da una vita, quell’omone di 1 metro e 90 cm per 110 kg, ultimamente sui 100 o meno. Il colosso. Mai curvo. Sempre eretto, sempre in piedi nonostante i mille problemi di salute degli ultimi 14 anni. Quando mi aveva raccontato che era praticamente svenuto per strada tornando dall’ospedale tanti anni fa mi aveva impressionato. Lui non voleva mai colpirti per i suoi acciacchi. Minimizzava sempre, anche con sé stesso.
Il cuore sofferente, quello dei sentimenti, ha condizionato il cuore organo, e l’ha spezzato. Troppo dolore del passato. Troppo. La vita non molla, lo dico e lo sento da tempo. Lupo che ti azzanna il collo, e ti può scuoiare se non vai a scavare per tuo conto dove ti indica. Prima d’azzannarti mi sembra di capire che t’avverte. Poi, chi lo sa… Supposizioni. Idee. Credenze…
Abbiamo parlato tanto negli ultimi mesi, scavato nel nostro passato, discusso, di sensi di colpa, di libertà profonda da vincoli d’ogni sorta, di rapporti. Abbiamo mangiato, ci siamo ubriacati a Pasqua. Un pranzetto surreale, l’ultimo pranzo assurdo che mi libera dal karma con mezza mia famiglia. Grazie babbo. Grazie, abbiamo camminato insieme in quella follia di famiglia d’origine che ci è toccata, e ci siamo stati male, ma tu ci stavi assai peggio di me, e sei ricorso a espedienti, a trucchi, per sopportare quel tuo inferno personale. Ora eri felice, lo so, e mi facevi stare bene con la tua serenità. Non è sempre stato così, assolutamente. Te lo dicevo che quella donna, la tua mamma, ci avrebbe sotterrato tutti!! Cazzo, se avevo ragione. E si rideva. L’inconsapevolezza (di lei in questo caso) permette anche di sopravvivere. Ma tu eri e sei troppo fine e raffinato (e al contempo brusco e rospo) e timido e sensibile per stare senza “sentire”.
Ieri dentro quella stupida bara di merda, babbone mio, sorridevi quasi. Non eri più li, no, eri già a svolazzare attorno a noi, e mi dicevi di spostarmi, per cui non c’era proprio bisogno di accompagnare quel corpo senza vita fino a Pistoia dopo la “cerimonia” No. Ero troppo troppo stanca.
Sabato notte, prima di Pasqua, avevo sognato che c’era la nascita della nonna materna, annunciata su un libretto da chiesa in caratteri d’oro. E io non potevo proprio mancare per cui rinunciavo a un altro impegno. In verità era il suo battesimo. E allora?? Era la tua, porca puttana, rinascita.
Quando ti avevano steso sul letto e io stavo lì, ancora a piangere, fino all’ultimo e ripetevo “ora me ne vado babbo”, ho sentito nitidamente le tue parole “e adesso levati dai coglioni!”. Ho riso. Capito! E mi sono allontanata.
Già, perché tu l’esperienza di pre-morte l’avevi fatta, e me la raccontavi spesso, per il primo grande infarto con il tuo bell’arresto cardiaco di un minuto. Avevi visto quella luce bianca, ma sopratutto raccontavi che avevi sentito un benessere e una pace, e poi ti avevano tirato indietro (i dottori) e avevi sentito un gran dolore, e li avevi mandati tutti a fare in culo (dentro di te).
Non sono irrispettosa, sono come siamo io e te. Questo era il nostro linguaggio, senza filtri, senza edulcorare. Senza finzione. Poi ovvio che argomenti spinosi da toccare c’erano e ci sono stati. Adesso ti avevo detto proprio tutto, che gran culo. T’ho detto tutto, e adesso, in questi ultimi mesi, non ho nemmeno mai avuto paura di ferirti troppo. In passato ti “proteggevo”, o pensavo di farlo. Adesso ognuno la sua responsabilità. Eravamo padre e figlia, ma anche piuttosto alla pari nel rapporto.
Mi era dispiaciuto tu non avessi voglia di tornare da noi, da me, dopo quel primo infarto, raccontandomi che avevi provato assenza di dolore in quella dimensione, ma era così, e dovevo accettarlo. Te lo dissi. Avevo ancora bisogno di te. Era il 2001, ed ero molto giovane.
E poi si sono aperti anni in cui hai fatto mille cose, anche molto belle, pur sempre faticando con il lavoro, e infiniti disturbi che mi hanno fatto vivere la tua presenza e il poterti vedere sempre come fosse un eventuale ultimo “ciao”. Prima non avevi mai avuto neanche l’influenza. Mille volte mi dicevo quando mi salutavi sulla tua porta di casa che poteva essere l’ultima. E mi ripetevo: bene, è stata una bellissima serata. Ci siamo salutati.
Adesso ci pensavo meno, ma dentro il tarlo non mi aveva mai lasciato.
Poi è iniziato il mio personale sconfinato dolore, e non ci ho pensato più. Vi ho anche io “mandato lontano”, e non potevo che curarmi di me e della mia sopravvivenza. Ho abbandonato i sensi di colpa, anzi, ho provato a sezionarli.
Ora mi ero leggermente di nuovo insospettita per la tua salute perché mi avevi quasi chiesto di accompagnarti a fare una colonscopia – l’ennesima – e le tue ultime bellissime parole: “non c’è da preoccuparsi per l’analisi e l’anestesia, non è nulla. Ricordati che finché ci sono questi luoghi meravigliosi in cui ci curano, possiamo guarire. Quindi le analisi sono un mezzo favoloso!” Ti ho detto: “come sei coraggioso. Grazie, perché non hai mai paura e questo me l’hai proprio trasmesso”.
Mi avevi recentemente accompagnato a fare una biopsia a un nodulo, e in macchina s’era pure litigato parlando del mio lavoro, e dell’analisi non un cenno. Tu non eri preoccupato, e nemmeno io! Andare con te in ospedale era fantastico perché avevi una fiducia immensa, e zero paura. Mai. Anche Lulu’, la moglie, è bravissima, e l’ho ammirata molto per il suo coraggio e la sua determinazione nel far sì che ti curassi, con tutti i guai che passavi. E tu le eri grato, e sapevi quanto ti aiutava profondamente.
A proposito, io ero Guaio con lui, da sempre. Gioco di parole sul mio nome.
L’unico a chiamarmi così, lui che per amici e affetti usava il cognome: la Padelletti, il Fontana, il Cini, il Morelli, l’Albonico. Anche la mia mamma, Bianchini. Forse valeva per alcune persone del passato e anche per le più care, ora che ci penso. Uno strano modo di mostrare l’affetto. Alla Rossignoli.
Un po’ ruvido. Con me era però diverso. Mi aveva dimostrato tutto quello che doveva.
Ieri in quella stanza piena di sole, e lui lì che non c’entrava niente con quell’evento… Mi sono trovata a fare un salto negli anni ’50, assistendo alla morte di qualcun altro, forse del suo babbo. Sì, perché invecchiando un po’ adesso gli somigliava, a Rossignoli senior.
E la gente mi fermava ieri, e vedeva un fantasma, ed era bellissimo perché pur senza conoscermi mi dicevano tutti che sono il suo ritratto, ed io ne sono fiera. Aveva gli occhi più belli che io abbia mai visto.
Mi hai fregato, anche se non potevi scegliere momento migliore per andare. Hai aspettato che tornassi da New York, mi hai permesso di avere il tempo di fare il mio percorso per provare a sciogliere i nodi con te e con mamma, e non so se è tutto risolto, ma sto tanto meglio anche se sto di merda. Rido. Io sono tornata per questo, e ne avevo una chiarezza cristallina da molto tempo. E te lo dicevo! E tu mi capivi! Grande fortuna. Enorme.
Domenica scorsa dicevi proprio che mi comprendevi e che c’eri passato anche tu da tanti disastri, ma la mia risata era tornata a essere quella che conoscevi. Ne eri contento, sostenendo che si avviava la ripresa. T’ho risposto: “babbo, ho perso praticamente tutto, ma l’ho scelto. E tu forse no. Io sto male, ma vivo senza ansia. Ti rendi conto? Tu mi sa che non l’hai mai sentita la vera libertà?” E tu, un po’ sorpreso: “no, è vero”. So quanti casini e obblighi hai avuto nel corso degli anni. Li sapevo, li ricordavo. C’ero.
(Lui era l’uomo, per esempio, dell’eterna domenica pomeriggio “drammatica” perché il giorno dopo è lunedì. Ora che era in pensione godeva della vita, ma aveva sempre lamentato questa “nefasta” sensazione fin da quano ero bambina. Punti di vista…).
La libertà totale, pur senza soldi, pur inventandosi il giorno. Ci pensavo io, ci pensavi tu, con distacco, un concetto astratto che in quel momento non riguardava nessuno in particolare, e camminavamo contenti di questi “chiarimenti” tra scelte e stati dell’essere, che, essendo ubriachi, ti fanno ancor più felice. Di questo confidarsi a cuore aperto.
Fanculo. L’ho ripetuto parecchie volte in due giorni. Eppure so che era il tuo tempo. Il grosso ostacolo visibile sulle linee della tua mano da superare, che se, superato, ti avrebbe consentito di vivere molto a lungo… Fanculo. Quale era dei molti ostacoli quello da superare?
Concludo con una nota che mi ha rincuorato in questo episodio del tuo, definiamolo così, trasferimento. Ero con Lulu’ sul loro letto e si parlava di anima, e le dicevo il mio credo. Lui ora è vicino al corpo perché all’inizio l’anima non si stacca subito, e ha necessità di un pochino di quello che definiamo tempo per comprendere ciò che è accaduto. Deve adattarsi. Se la morte è traumatica, è ancora più complicato. Per questo, ho detto, mi pare meglio fare la cremazione tra un po’ di tempo e non subito.
Bene, parlavamo di queste delizie, e io cercavo a modo mio di farle coraggio perché ho visto che era digiuna di questi temi. E magari un briciolo di conforto poteva darlo. Chi lo sa…
Inizio a sentirlo russare, cazzo, nitidamente.
Mi blocco. “Lulu’! Lo senti?!” Mi avvicino a lui, lo sento piano, ma penso che sono confusa dai rumori della strada. “Anch’io ieri ho avuto la sensazione di sentirlo russare, ma…” mi risponde poco convinta.
Continuiamo a parlare normalmente. Mi viene la tachicardia perché solo dal mio orecchio sinistro, dove era il suo corpicione, sentivo provenire nitidamente un russare beato. Mi sembrava di vederlo sorridere, anche se guardavo Lulu’ che mi parlava.
Illusione. Non sapevo.
Dopo un’ora parlo con mia zia, sua sorella, che mi dice: “Mah, prima mi sembrava anche di sentirlo russare!”
E allora va bene. Allora ce l’hai fatta a farti sentire per bene! Grande! Grazie ancora babbo, solenne russatore che hai tenuto sveglie tante persone nella tua vita! Sei riuscito anche a modulare una russata soave con varie tonalità. Non riesco a essere arrabbiata con te perché mi hai aspettato di ritorno da oltremare, per venirmi a prendere a Pisa ogni volta, per ascoltarmi, e te sei andato via una mattina dormendo – noi tutti lo speriamo – babbone mio.
Tutto s’e’ serenamente visto e valutato, voglio solo pensarla così. Ora è il tempo di praticare. Niente promesse, i propositi erano e sono ancora lì sul piatto. Leggerezza. La volevi tu, la voglio io.
“Andare dove la vita vuole è come camminare nel sole. A presto!” spicca scritto a mano su un foglio in un quadretto nel tuo studio, firmato P., che sempre mi emozionava e incuriosiva a leggerlo. E che domattina a innaffiare i tuoi baobab rileggerò ancora…
Basta. Forza e avanti. Babbone, te lo prometto, dirò sempre le parolacce! Parola di Guaio.