Un pomeriggio dopo il lavoro decido di andare a yoga.
Avevo comprato un buono per un mese di tutto lo yoga possibile. E quel giorno avevo scelto aereal yoga (adesso la massima attrattiva risiede nella parola “aereo”. Ogni attività aerea. Chissà quante mai potrò farne…), dunque prendo il treno verso la scuola di yoga in tutte le salse, che si trova nell’Eastvillage. Non è di strada, diciamo che già non sono in anticipo, ma assai fiduciosa nei potenti mezzi newyorkesi. E invece erro.
Anche loro sono fallaci. E quel pomeriggio, fallo su fallo (un simpatico gioco di falli! Ah!…) alla meta stabilita non ci arrivo. Prima il treno chiede venia con il suo tanto polite annuncio, c’è traffico; poi si ferma, mentre io friggo perchè qui non usa arrivare tardi alle lezioni. Appena possibile scendo, provo a recuperare il tempo con un treno espresso, quello che percorre i binari più sotterranei, solcando le profonde oscure viscere della città, e lì entra in gioco per la seconda volta il mio errare sciolto: quel treno non prevede proprio lo stop alla mia fermata. Niente panico. Hai solo perso la lezione. L’ultima.
Direzione Brooklyn Bridge. Ecco.
Urca, e ora che si fa? Un attimo di perplessità. Invece di tornare indietro, mesta come una cogliona, decido che posso farmi un giro. Chiamasi libertà. E chissà perchè non l’ho mai granchè praticata. Mi ritrovo a fare semplici cose come se fosse la prima volta, come se avessi vissuto in una bolla. Chiusa nello scrigno. E chi mi ci ha mai messo, se non io stessa? Può sembrare ridicolo, ma il comprenderlo e l’accettarlo è un passo. E di gabbie ce ne costruiamo di bellissime, a misura. Invisibili e inossidabili.
Scendo dal treno. Sbuco fuori. Una vista pazzesca. Nuvole da scoppio del cielo.
E tu che ci fai qui? Esplori.
Puoi procedere. Sei qui per caso – così sembra – ma caso non è.